Profilo

Mi chiamo Andrea Bassetti, ho ventinove anni e lavoro nel mondo del caffè da molto tempo.
Ho incominciato a lavorare in questo mondo a Trieste, la capitale italiana del caffè. È grazie a questa città e ai professionisti che ho incontrato nel mio cammino, che è sbocciato il mio amore nei confronti di questa bevanda così complessa e dalle mille sfaccettature.
Ho lavorato molti anni in svariati bar italiani, alcuni molto importanti ma, nonostante l’attenzione che davano all’apparenza, la qualità della materia prima del caffè e l’attenzione per la preparazione erano sempre messi all’angolo.
Ho passato i primi tempi della mia carriera a guardare come lavoravano i miei colleghi: spingere un bottone e fare uscire il caffè senza preoccuparsi di nient’altro. Gli chiedevo quanti grammi ci volessero per preparare un espresso ma non lo sapevano, gli chiedevo che tipo di miscela usavamo per i nostri clienti ma non riuscivano a rispondermi. Qualcosa non mi tornava. Guardai la trasmissione che il programma Report fece sul caffè e vidi che quello che vivevo sulla mia pelle non era solo un problema dei bar per cui lavoravo ma che la maggior parte di baristi italiani non sapeva rispondere a queste domande così banali.
La prima svolta l’ebbi quando andai insieme al mio titolare alla fiera sul caffè che tutti gli anni si svolge a Rimini. Lì scoprii che c’era un mondo fatto di professionisti che approcciavano al caffè come fosse un’arte e non in maniera asettica e automatica.
Successivamente ho cominciato a studiare giorno e notte tutto quello che stava dietro alla tazzina del diavolo, come veniva chiamata in passato.
Ho fatto un corso di Latte Art a Milano dalla vicecampionessa mondiale di questa disciplina, un corso di barista completo a Trieste, un corso di tostatura a Roma, ho visitato importanti torrefazioni ma la vera svolta l’ebbi quando partecipai ad un Coffee Camp in Indonesia organizzato da Umami Area in collaborazione con Starkmacher e co-finanziato dall’Unione europea.
Siamo andati nella parte meno conosciuta dell’Indonesia, nell’estremo nord dell’isola di Sumatra a fare un corso di analisi sensoriale e botanica del caffè ospiti di una ONG indonesiana che si batte contro la deforestazione della foresta pluviale, contro la minaccia dei bracconieri ai danni degli orangutango (specie minacciata di estinzione) e che si impegna a produrre un caffè di qualità in maniera sostenibile utilizzando compost biologici per la concimazione delle piante ed evitando l’utilizzo di fertilizzanti chimici
È lì che ho deciso di approfondire la mia conoscenza e trasferirmi in Honduras lavorando in una cooperativa caffeicola e studiando tutto quello che sta dietro la mia bevanda preferita.
In Italia siamo abituati a bere un caffè di bassa qualità pensando ancora di campare di rendita grazie alla rivoluzione che abbiamo apportato in questo settore inventando prima la macchina per espresso e poi la moka.
Questo ci fa credere di avere la cultura del caffè nel DNA ma ahimè non è così.
Sono passati più di trecento anni da quando a Venezia aprì la prima caffetteria d’Italia. Da allora ci sono stati numerosi cambiamenti culturali e tecnologici che hanno cambiato il modo di consumare caffè sia in Italia che nel resto del mondo.
Ad oggi il paese che consuma più caffè al mondo è la Norvegia. L’Italia, consumando 5.8 kilogrammi di caffè pro capite all’anno, è tredicesima.
In Italia, rispetto al resto d’Europa, la cultura al caffè di qualità è molto scarsa. Le maggiori capitali europee pullulano di specialty coffee shop e dietro al bancone il più delle volte c’è gente preparata che sa quello che fa al contrario dell’Italia dove il barista è visto come un lavoretto temporaneo.
Questo va contro il consumatore finale il quale, prima di acquistare un caffè, deve avere la possibilità di essere a conoscenza di più informazioni possibili rispetto a ciò che sta bevendo poiché dalla semina alla tazzina il caffè subisce decine e decine di processi ognuno dei quali, se fatto in maniera impropria, compromette irrimediabilmente il gusto finale.
Annata di raccolto, metodo di raccolto, processo di lavorazione, paese/i di provenienza, specie botanica, varietà botanica, altitudine, percentuale di ombreggiatura della piantagione, giorno di tostatura sono solo alcuni dei fattori che determinano il gusto della bevanda e che quindi il cliente è in dovere di conoscere. Non basta più leggere 100% arabica.
In questo periodo di permanenza in Honduras ho avuto la possibilità e la fortuna di avere a che fare con veri professionisti i quali mi hanno insegnato la differenza tra produrre un caffè di qualità rispetto ad un caffè commerciale.
Per conoscere e capire in maniera più dettagliata le diverse culture e i diversi approcci che ogni singolo produttore di caffè mette nei propri frutti ho viaggiato in lungo e in largo in El Salvador, Guatemala, Costa Rica e Nicaragua alla ricerca del caffè dalle mille e una notte.
Il mio sogno è quello di mettere la mia esperienza al servizio di chi non è disposto a rinunciare ad un caffè di qualità.
A questo proposito ho fondato Caffè Revolution che si occupa di portare direttamente a casa tua il caffè di Pedro, Noè, Panchito e di molti altri produttori di caffè che, consapevoli del fatto che vivendo di caffè e col caffè, si impegnano a migliorare le proprie condizioni aumentando la propria conoscenza e, lavorando la terra a colpi di machete, puntano a produrre il caffè più buono del mondo.
Ho incominciato a lavorare in questo mondo a Trieste, la capitale italiana del caffè. È grazie a questa città e ai professionisti che ho incontrato nel mio cammino, che è sbocciato il mio amore nei confronti di questa bevanda così complessa e dalle mille sfaccettature.
Ho lavorato molti anni in svariati bar italiani, alcuni molto importanti ma, nonostante l’attenzione che davano all’apparenza, la qualità della materia prima del caffè e l’attenzione per la preparazione erano sempre messi all’angolo.
Ho passato i primi tempi della mia carriera a guardare come lavoravano i miei colleghi: spingere un bottone e fare uscire il caffè senza preoccuparsi di nient’altro. Gli chiedevo quanti grammi ci volessero per preparare un espresso ma non lo sapevano, gli chiedevo che tipo di miscela usavamo per i nostri clienti ma non riuscivano a rispondermi. Qualcosa non mi tornava. Guardai la trasmissione che il programma Report fece sul caffè e vidi che quello che vivevo sulla mia pelle non era solo un problema dei bar per cui lavoravo ma che la maggior parte di baristi italiani non sapeva rispondere a queste domande così banali.
La prima svolta l’ebbi quando andai insieme al mio titolare alla fiera sul caffè che tutti gli anni si svolge a Rimini. Lì scoprii che c’era un mondo fatto di professionisti che approcciavano al caffè come fosse un’arte e non in maniera asettica e automatica.
Successivamente ho cominciato a studiare giorno e notte tutto quello che stava dietro alla tazzina del diavolo, come veniva chiamata in passato.
Ho fatto un corso di Latte Art a Milano dalla vicecampionessa mondiale di questa disciplina, un corso di barista completo a Trieste, un corso di tostatura a Roma, ho visitato importanti torrefazioni ma la vera svolta l’ebbi quando partecipai ad un Coffee Camp in Indonesia organizzato da Umami Area in collaborazione con Starkmacher e co-finanziato dall’Unione europea.
Siamo andati nella parte meno conosciuta dell’Indonesia, nell’estremo nord dell’isola di Sumatra a fare un corso di analisi sensoriale e botanica del caffè ospiti di una ONG indonesiana che si batte contro la deforestazione della foresta pluviale, contro la minaccia dei bracconieri ai danni degli orangutango (specie minacciata di estinzione) e che si impegna a produrre un caffè di qualità in maniera sostenibile utilizzando compost biologici per la concimazione delle piante ed evitando l’utilizzo di fertilizzanti chimici
È lì che ho deciso di approfondire la mia conoscenza e trasferirmi in Honduras lavorando in una cooperativa caffeicola e studiando tutto quello che sta dietro la mia bevanda preferita.
In Italia siamo abituati a bere un caffè di bassa qualità pensando ancora di campare di rendita grazie alla rivoluzione che abbiamo apportato in questo settore inventando prima la macchina per espresso e poi la moka.
Questo ci fa credere di avere la cultura del caffè nel DNA ma ahimè non è così.
Sono passati più di trecento anni da quando a Venezia aprì la prima caffetteria d’Italia. Da allora ci sono stati numerosi cambiamenti culturali e tecnologici che hanno cambiato il modo di consumare caffè sia in Italia che nel resto del mondo.
Ad oggi il paese che consuma più caffè al mondo è la Norvegia. L’Italia, consumando 5.8 kilogrammi di caffè pro capite all’anno, è tredicesima.
In Italia, rispetto al resto d’Europa, la cultura al caffè di qualità è molto scarsa. Le maggiori capitali europee pullulano di specialty coffee shop e dietro al bancone il più delle volte c’è gente preparata che sa quello che fa al contrario dell’Italia dove il barista è visto come un lavoretto temporaneo.
Questo va contro il consumatore finale il quale, prima di acquistare un caffè, deve avere la possibilità di essere a conoscenza di più informazioni possibili rispetto a ciò che sta bevendo poiché dalla semina alla tazzina il caffè subisce decine e decine di processi ognuno dei quali, se fatto in maniera impropria, compromette irrimediabilmente il gusto finale.
Annata di raccolto, metodo di raccolto, processo di lavorazione, paese/i di provenienza, specie botanica, varietà botanica, altitudine, percentuale di ombreggiatura della piantagione, giorno di tostatura sono solo alcuni dei fattori che determinano il gusto della bevanda e che quindi il cliente è in dovere di conoscere. Non basta più leggere 100% arabica.
In questo periodo di permanenza in Honduras ho avuto la possibilità e la fortuna di avere a che fare con veri professionisti i quali mi hanno insegnato la differenza tra produrre un caffè di qualità rispetto ad un caffè commerciale.
Per conoscere e capire in maniera più dettagliata le diverse culture e i diversi approcci che ogni singolo produttore di caffè mette nei propri frutti ho viaggiato in lungo e in largo in El Salvador, Guatemala, Costa Rica e Nicaragua alla ricerca del caffè dalle mille e una notte.
Il mio sogno è quello di mettere la mia esperienza al servizio di chi non è disposto a rinunciare ad un caffè di qualità.
A questo proposito ho fondato Caffè Revolution che si occupa di portare direttamente a casa tua il caffè di Pedro, Noè, Panchito e di molti altri produttori di caffè che, consapevoli del fatto che vivendo di caffè e col caffè, si impegnano a migliorare le proprie condizioni aumentando la propria conoscenza e, lavorando la terra a colpi di machete, puntano a produrre il caffè più buono del mondo.